Sfiorano ormai quota tremila gli
schermi del Giappone: una cifra da record, se si considera che nel
1993 il parco sale aveva toccato il minimo con 1.734 unità
e che quindi l’incremento, in una dozzina di anni, è
stato di circa il 70%.
I numeri di oggi significano che uno schermo serve oltre 43.000
Giapponesi. In Italia c’è uno schermo più o
meno ogni 16.000 abitanti, negli Stati Uniti uno ogni 7.700.
La frequenza media annua è, nel paese del Sol Levante, una
delle più basse tra quelle dei grandi mercati mondiali: 1,25
per abitante nel 2005. Continuando il paragone, si vede che in Italia
la media è di circa 1,76, negli Stati Uniti di 4,70.
C’è ancora, dunque, la necessità di costruire
nuove sale nell’intento di far aumentare la frequenza?
“I protagonisti dello sviluppo delle sale cinematografiche
giapponesi ritengono che il mercato sia maturo”, afferma Mark
Schilling, corrispondente da Tokyo per “Variety” e responsabile
della selezione dei film giapponesi per il Far East Film Festival
di Udine.
“Dopo quasi un ventennio che ha visto da una parte il frazionamento
e l’ammodernamento delle grandi sale tradizionali nei centri
urbani e dall’altra l’avvento di multiplex e multisale
in abbinamento ai centri commerciali, il boom delle aperture può
considerarsi esaurito”, continua Schilling.
Un’analisi che tenga in considerazione non solo i classici
parametri “frequenza annua pro capite” e “numero
di abitanti per schermo”, ma anche il numero di schermi per
km2 sembra confermare questa visione prudente. Secondo quanto afferma
J. Ph. Wolff, consulente scientifico dell’Annuario “European
Cinema Yearbook” di MEDIA Salles, “maggiore è
la densità della popolazione, minore può essere la
densità degli schermi sul territorio per ottenere, quando
le altre condizioni siano pari, un certo numero di presenze”.
Rispetto, infatti, alla densità dell’offerta cinematografica,
il Giappone si presenta piuttosto “generoso”, offrendo
uno schermo ogni 129 km2. In questo si avvicina all’Italia
(uno schermo ogni 84 km2) e si distanzia moltissimo dagli Stati
Uniti (uno schermo ogni 241 km2).
Questo può forse spiegare perché i gruppi stranieri
di esercizio non abbiano, o – per meglio dire – non
abbiano più, il Giappone tra le loro priorità. Dei
grandi investitori che dagli anni Novanta avevano fatto il loro
ingresso nel Paese, contribuendo in larga misura all’apertura
di oltre mille schermi, è rimasto solo Warner Mycal, forte
di circa 350 sale. In ordine di “disapparizione”, compaiono
Virgin, approdata nel 1999 a Fukuoka per aprire quello che allora
era il più grande multiplex del Paese, che nel 2003 ha ceduto
le sue sale (81 in otto complessi) a Toho, quindi UCI, che nel 2004
ha ceduto le sue azioni ai partners locali (Sumitomo, socio di maggioranza,
e Kadokawa) che operano col logo United Cinemas, ed infine AMC,
che nel 2005 ha venduto i suoi cinque complessi, tutti caratterizzati
da un numero di schermi piuttosto elevato, a United Cinemas.
Ad avere la leadership di un mercato che – grazie al prezzo
medio del biglietto decisamente elevato (quasi 9 euro) se paragonato
a quello dell’Europa Occidentale (intorno ai 6 euro) e degli
Stati Uniti (circa 5,50 euro) – è uno dei più
importanti del mondo, il gruppo Toho, noto in tutto il mondo come
il “creatore” di Godzilla, verticalmente integrato dalla
produzione all’esercizio.
Toho, insieme a una serie di società di grandi dimensioni,
tutte giapponesi – all’infuori di Warner Mycal –
come quelle già citate, ma anche Shochiku e Toei (attraverso
la controllata T-Joy), gestisce un’offerta di schermi tendenzialmente
sempre più all’americana, dove film fa rima con pop
corn, coca cola e hot dog. I complessi di questo tipo sono spesso
situati in centri commerciali e di intrattenimento, icona della
vita giapponese di oggi e anticipazione di quella delle metropoli
del prossimo futuro. Tra questi spicca Roppongi Hills, il luogo
maggiormente visitato del Giappone – “anche più
del locale Disneyland”, sottolinea Schilling. “Qui Toho
gestisce un cinema che ha conservato anche il logo di Virgin, che
ne aveva curato la progettazione, e che offre – per l’equivalente
di poco meno di 22 euro – un trattamento di “prima classe”
con un esplicito riferimento agli usi delle compagnie aeree, che
si estende anche al sistema di fidelizzazione basato sulle miglia
(un minuto di film = un miglio)”.
Non mancano, però, soprattutto a Tokyo e nelle altre otto
maggiori città del Paese, schermi più tradizionali
o più sofisticati, gestiti anche da società medio-piccole,
dove l’accompagnamento del film può essere ancora il
calamaro essiccato o già il cappuccino all’italiana.
A questo proposito, non a caso si chiama “La dolce vita”
il caffè di uno dei cinema di Tokyo più alla moda,
sia tra gli “expatriates” sia tra i Giapponesi dai gusti
più sofisticati. Si tratta del Cine Amuse, che, a Shibuya,
il distretto cinematografico per eccellenza a Tokyo, offre titoli
che spaziano dalla produzione indipendente nipponica al cinema del
resto del mondo con taglio “d’essai”. Sempre a
Shibuya, il Cinemarise, che si fa notare non solo per l’architettura
avveniristica, ma anche per una programmazione che dà visibilità
ad autori europei come Lars Von Trier o François Ozon, e
l’Eurospace, gestito da un esercente/distributore a cui si
devono la diffusione di un ventaglio di titoli “d’essai”
che vanno dalla A di Almodóvar alla Z di Zhang Yimou passando
per Kiarostami e Rohmer nonché la promozione di giovani autori
del Sol Levante.
In un paese che ha diffuso un’immagine di sé altamente
tecnologica e informatizzata, non poteva mancare l’offerta
di cinema digitale: la fine del 2005 ha visto gli schermi già
equipaggiati con la tecnologia DLP CinemaTM toccare quota 49, mentre
sono stati annunciati accordi tra società giapponesi e americane,
tra cui Warner e Toho, per la conduzione di esperimenti di distribuzione
e proiezione secondo le specifiche di DCI, anche con risoluzione
4K. Ma per ora, pure nel tecnologico Giappone, la frontiera del
4K sembra ancora materia di esperimento più che realtà
per gli spettatori.
Elisabetta Brunella